Nell’Incontro Internazionale Trieste 2010: che cos’è “salute mentale”?

Per una rete di salute comunitaria (9-13 febbraio), in occasione delle

imminenti elezioni regionali, è stata elaborata una lettera di

raccomandazioni alle candidate e ai candidati alla presidenza delle

Regioni. Il Forum Salute Mentale l’ha fatta propria e si è impegnato a

diffonderla

Cara/o candidata/o Presidente,

in occasione del prossimo appuntamento elettorale, che coinvolgerà molte regioni italiane,

vogliamo esplicitare alcune richieste in ordine alle “politiche per la salute mentale” che, come le è

noto, sono ormai di esclusiva competenza dei governi regionali.

L’assolutamente inutile dibattito sulla Legge 180 deve appartenere al passato. La Legge 180 ha

finalmente eliminato uno statuto speciale (e rovinoso) per i “malati di mente”. Impossibile tornare

indietro.

I servizi psichiatrici e per la salute mentale dovevano e devono essere costituiti in ogni regione

non per legge “speciale” ma per pubblico dovere, come per qualsiasi altro settore della sanità

pubblica.

In molte regioni questo non è avvenuto o è avvenuto con modalità gravemente improprie e

senza una allocazione efficace delle risorse (case di cura private che erano escluse dalla legge,

cosiddetti “centri di riabilitazione” dove le persone vengono trattenute per anni, residenze con

caratteristiche di manicomialità, servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali generali con le

porte chiuse che fanno ricorso in maniera non accettabile alla contenzione, strutture territoriali

ambulatoriali aperte poche ore al giorno, ecc.-.

Tutti sappiamo da molti anni, perché ne abbiamo oramai evidenze scientifiche, qual è il modello

adeguato di servizi per la salute mentale, che possiamo così schematicamente configurare:

1. uno strutturato Dipartimento di salute mentale per ogni Azienda Sanitaria con un’unica

responsabilità di budget e di indirizzo clinico;

2. Centri di Salute Mentale funzionanti sulle 24 ore e per 7 giorni, dotati ciascuno di posti

letto per l’accoglienza di persone anche in crisi, di una equipe multidisciplinare con circa 1

operatore ogni 1500 abitanti, che oltre a svolgere interventi ambulatoriali e domiciliari,

devono garantire la presa in carico e la continuità terapeutica nella comunità, interfacciarsi

con gli altri servizi sanitari e sociali del territorio, promuovere programmi di emancipazione

ed inclusione;

3. un servizio psichiatrico di diagnosi e cura allocato nell’ospedale generale, con non più di 15

posti letto, che funzioni eminentemente come pronto soccorso psichiatrico, come luogo di

ricovero (TSV/TSO) per il tempo necessario e per quanti necessitino di competenze

specialistiche dell’ospedale generale. L’accoglienza, il ricovero e le dimissioni avvengono in

costante rapporto con il CSM 24ore dell’area di provenienza;

4. una rete di alloggi e di case per piccoli “gruppi di convivenza”, fino a 8 posti, supportati da

graduate forme di assistenza, per coloro che non possono vivere in famiglia o da soli;

5. una rete di cooperative sociali e di laboratori di attività per favorire ogni forma di

integrazione lavorativa o di occupazione delle persone coinvolte;

6. sostegno alle famiglie, sia attraverso i servizi domiciliari che attraverso programmi specifici

di accoglienza e di informazione che attraverso il supporto alla dimensione associativa;

7. promozione del protagonismo e sostegno alle iniziative di auto-aiuto tra le persone con

esperienza di malattia;

8. forme di sostegno al reddito, alla socialità, ad appropriate politiche per la casa nell’ambito

del rapporto tra aziende sanitarie ed enti locali attraverso la pianificazione territoriale;

9. attività di formazione permanente per gli operatori del servizio pubblico e il terzo settore

coinvolto in azioni complementari;

10. programmi di presa in carico di persone con disturbo mentale autori di reato, in alternativa

all’internamento in ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) e programmi di presa in carico

degli internati nell’ OPG finalizzati alla loro dimissione e presa in carico territoriale, per

contrastare qualsiasi forma di ricostruzione anche a livello regionale di OPG

Attraverso queste azioni coordinate e integrate – che dovrebbero avvalersi di circa il 5% delle

risorse globali del fondo sanitario – è possibile come dimostrano numerose esperienze:

• superare l’utilizzo di cliniche private, di residenze ad elevata concentrazione di utenti, di

posti letto non accreditati o non sensatamente accreditabili,

• attivare la pratica del programma terapeutico riabilitativo personalizzato, ovvero il Budget

individuale di Salute (BdS), come modalità attraverso cui si impegnano le risorse, si

definiscono di volta in volta gli obiettivi terapeutici riabilitativi e di integrazione. In questo

senso riconvertendo le spese per le strutture residenziali integrandole nel lavoro del CSM

• adottare le “Raccomandazioni in merito all’applicazione di accertamenti e trattamenti

sanitari obbligatori per malattia mentale” elaborate e approvate dalla Conferenza delle

regioni e delle province autonome nell’aprile 2009.

• ridurre il numero dei T.S.O.

• abolire ogni forma di contenzione fisica e di abuso farmacologico,

• azzerare l’invio di pazienti fuori del territorio di competenza delle rispettive aziende

sanitarie,

• riuscire a fare a meno del ricorso all’ospedale psichiatrico giudiziario.

Questo modello organizzativo dei servizi – già presente da anni e con provata efficacia in alcune

aree del paese – è del tutto praticabile e sostenibile, è finanziariamente compatibile.

Occorre però che gli amministratori lo vogliano con chiarezza e lo perseguano con adeguata

determinazione, affinchè gli operatori psichiatrici pubblici, e in particolare i responsabili dei servizi,

riescano a svolgere il loro lavoro in coerenza con i principi vigenti.

Solo in quanto gli amministratori agiscano coerentemente la loro funzione, senza più una

insopportabile dissociazione tra gli enunciati e le azioni, sarà possibile generalizzare quella

trasformazione delle pratiche e della cultura che è stata avviata ancor prima delle legge 180 e che

per ora ha dato i suoi frutti soltanto in determinate aree del nostro Paese.

Per il Forum Salute Mentale

la Portavoce Giovanna Del Giudice

Per la dignità della ricerca ci vorrebbe un Salomone

Questo articolo veniva scritto all’inizio del 2007 e descrive in modo corretto ed appassionato la situazione di allora della Ricerca Pubblica Italiana soprattutto relativa al precariato nel mondo della ricerca. Sono passati tre anni, ci sono state due finanziarie del governo Prodi che hanno cercato di migliorare un po’  le cose ma poi sono arrivati Brunetta e la Gelmini, la demagogia del fannullone pubblico da una parte e del ricercatore cavaliere di ventura dall’altra e siamo nuovamente al punto di partenza, anzi peggio. Si è riusciti a stabilizzare un numero non molto significativo di precari, in alcuni enti facendo anche pasticci all’italiana, privilegiando a volte appartenenze al merito ed utilizzando come unico metro di giudizio discriminante l’anzianità….la fretta di applicare norme deboli ed a rischio è stata tanta ed è prevalsa la solita linea del salviamo il salvabile. Tutto ciò è servito a mascherare tagli indiscriminati in un comparto che già era in sofferenza ed ora è in ginocchio….questa è una battaglia da fare e supportare per una forza politica seria e che ha a cuore il futuro del paese! R.Orsatti

Per la dignità della ricerca ci vorrebbe un Salomone – L’Unità gennaio 2007

È augurabile che Luigi Nicolais, ministro per la Funzione Pubblica, Innovazione e Tecnologie, si prenda finalmente la responsabilità di proporre qualche soluzione intelligentemente «salomonica», che salvi il reddito dei giovani capaci (e dei meno giovani: purtroppo), ma garantisca criteri salubremente europei per le loro assunzioni. Nelle Università e negli Enti di ricerca si sono infatti dolorosamente accatastate le ultime generazioni di scienziate e scienziati che attendono non l’ennesima «sanatoria-opelegis-todoscaballeros», ma dignità di stipendio e autonomia nella ricerca. Si tratta di centinaia, verosimilmente migliaia, di laureati, spesso provvisti del titolo di Dottore di ricerca (talora conseguito presso prestigiose istituzioni estere, segno di precoce internazionalizzazione), che aspettano di vedere finalmente appagate le loro legittime aspirazioni a un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Checché ne scrivano Francesco Giavazzi e Pietro Ichino sul Corriere della Sera, molti di loro non hanno acquisito una «mentalità impiegatizia», né sono neo-fannulloni a caccia dell’agognato «posto fisso», da statale potenzialmente assenteista. Anzi, come non smette puntualmente di ricordare in pubblico il dimissionario responsabile Ds per Università e Ricerca (il fisico, filosofo e parlamentare della Camera Walter Tocci), sono professionisti responsabili, dall’assai elevata quantità e qualità di pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali «ad alta citabilità». Rappresentano l’orgoglio della nostra scienza nazionale, sono risorse umane essenziali per il rilancio dell’innovazione e dunque dell’economia competitiva per la conoscenza in questo complesso Terzo Millennio, nel quale al paese toccherà inevitabilmente di competere con quelle «tigri asiatiche», come Cina, Giappone, Nord Corea, Malesia, che sfornano tecnologi ogni giorno più in grado di competere con coetanei formati nelle migliori università inglesi e statunitensi. Che fare? Onestamente, con la sincerità possibile a noi, ultracinquantenni professionisti della ricerca che sappiamo che il senso e la dignità del nostro lavoro risiede nella possibilità che trentenni e ventenni talentuosi e meritevoli abbiano possibilità analoghe a quelle che l’Italia della lira svalutabile ci offrì, e che comprendiamo che l’entrata nell’era dell’Euro detta principi professionali rigorosi e monitorabili, che l’intraducibile accountability diventa un obiettivo ogni giorno più concreto, ci rendiamo conto che la finanziaria 2007 ha operato scelte talora discutibili (anziché assai delicate). Le aspirazioni legittime di un precariato multiforme non possono che tradursi nella richiesta di assunzioni selettive, fatte con criteri assolutamente europei e altrettanto trasparenti (per esempio, depositati sui siti istituzionali dei Ministeri dell’Università e della Ricerca, della Salute, magari della Presidenza del Consiglio). E il tutto con risorse economiche e prospettive di selezione per merito migliorate rispetto al precedente quinquennio di inverno berlusconiano. Nicolais, scienziato lungimirante, sa che oggi Università ed Enti di Ricerca hanno a disposizione parecchie tipologie per le varie figure professionali. Oltre al tradizionale Ricercatore (che sostituì dal 1982 la vetusta e talora asservita figura dell’«assistente»), nelle Università esistono figure di elevata professionalità nell’Area Tecnico-scientifica, mentre negli Enti di Ricerca (CNR, INFN, il risorgente INFM, l’Istituto della Montagna, ISS, ISPELS, e tante altre entità della variegata rete di isituzioni di ricerca nazionale), sono a disposizione del governo e dei singoli ministri vigilanti le tipologie di Tecnologo e Collaboratore Tecnico. Sono tipologie dignitose sul piano del reddito, considerando lo stipendio medio del Ricercatore italiano. Insomma, va protetta e non inquinata la figura del Ricercatore, capace di produrre in autonomia novità scientifica e di attrarre con regolarità fondi da agenzie internazionale, ma il trentenne che avesse avuto la non colposa sfortuna di aver lavorato in ambienti non in grado di fornirgli gli skills tecnici oggi necessari al mondo della ricerca europea, potrebbe «accontentarsi» di una figura diversa dal Ricercatore, pur mantenendo il sacrosanto diritto a uno stipendio che permetta di accendere un mutuo per la prima casa, così come il diritto alla maternità o alla paternità. Il ripristino di questi diritti dolorosamente conculcati dovrebbe rappresentare una priorità presente a qualsiasi professionista o legislatore che abbia sensibilità per queste sfortunate generazioni. Sarà una scelta tanto coraggiosa quanto utile allo sviluppo delle università, della ricerca extrauniversitaria e per un futuro di innovazione e di competitività complessiva di un’Italia saldamente inserita nello spazio europeo della ricerca e dell’alta formazione.

2 gennaio 2007

Enrico Alleva Socio corr. Accademia Naz. Lincei – Fulvio Esposito Rettore Università di Camerino

Ricerca, le nozze con i fichi secchi

Pochi giorni orsono sono stati pomposamente pubblicati i risultati della valutazione dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin), per l’anno 2008, con la lista dei programmi finanziati. Questi finanziamenti sono stati erogati con un ritardo così grave da rendere la nostra ricerca pubblica assolutamente priva di competitività con gli altri paesi. Ma non basta, oltre al danno c’è anche la beffa.
Infatti, la scarsa consistenza di tali finanziamenti, nella maggior parte dei casi, non permetterà di attuare i programmi approvati. Per ogni progetto di ricerca è stato infatti effettuato il cosiddetto “taglio all’italiana”, consistente in una decurtazione del finanziamento richiesto che va dal 30 a oltre il 40%.
Questo comportamento corrisponde alla solita cinica e misera politica di accontentare molti spendendo poco, con l’idea che la “gente italica” troverà il modo di arrangiarsi. Per rendersi conto di ciò di cui si parla, vale la pena spiegare come viene formato il giudizio finale da parte dei valutatori. I parametri presi in considerazione sono la rilevanza e l’originalità della ricerca, nonchè il potenziale avanzamento delle conoscenze rispetto allo stato dell’arte. Oltre alla rilevanza del progetto di ricerca, i valutatori hanno il compito di verificare l’esperienza e l’autorevolezza scientifica dei proponenti.
Poiché vengono finanziati solo i progetti che hanno ricevuto il massimo punteggio, ci dovremmo aspettare un’inondazione delle più prestigiose riviste internazionali, quali Nature e Science, con lavori scientifici di gruppi italiani.
La verità è che spesso si tratta di un gioco delle parti indotto dalla scarsità di fondi ministeriali. I valutatori italiani sanno che un progetto, per essere finanziato, deve raggiungere il massimo punteggio e quindi sono costretti a dare questo tipo di giudizio quando ritengono un programma meritevole.
I valutatori stranieri non danno mai il massimo del punteggio anche quando giudicano eccellente un programma.
Per cui, se un ricercatore ha la sfortuna di essere giudicato da valutatori stranieri, corre il rischio di essere escluso anche se migliore di altri. Sembra lecito assumere che tra i programmi approvati ci siano alcuni che non corrispondano a parametri di assoluta eccellenza e altri, pur se ottimi, abbiano una scarsa probabilità di essere realizzati a causa di finanziamenti ridotti a poco più di una mancia.
Con un ritardo di due anni nell’erogazione delle risorse comunque insufficienti, è come pretendere che in una gara ciclistica, un corridore arrivi primo partendo in ritardo con una bicicletta da passeggio! Come è possibile che il ministro non si accorga della ridicola incongruenza tra le valutazioni e il supporto finanziario, che per la sua inconsistenza, appare offensivo se non provocatorio? Il tutto appare ancora più grottesco se si considerano i proclami sull’avvento di una nuova e radiosa stagione della ricerca e dell’università nel nostro paese, avviata da adeguati finanziamenti elargiti sulla base del merito, premiando quindi l’eccellenza.
Proclami miseramente naufragati in una ricetta a base di “pizza e fichi” con effetti frustranti per le aspettative delle giovani generazioni di ricercatori e devastanti per la nostra credibilità e competitività scientifica a livello internazionale.
Risulta disperante la miopia e l’incapacità di chi ci governa di capire come investire risorse nella ricerca e nell’istruzione universitaria, anche in un momento di crisi economica, sia assolutamente vitale per il futuro del nostro paese. Quella di non investire risorse, anche a costo di sacrifici, nei punti nevralgici di una società civile, sembra una inquietante pratica generalizzata del potere politico così intriso di cinismo e incompetenza come testimoniato dai curricula assolutamente inconsistenti di alcuni ministri.
Un esempio su tutti riguarda la legge sul cosiddetto “processo breve” la cui applicazione tradirà sicuramente quei fini per i quali viene sbandierata. Come per la ricerca, anche per la giustizia, la soluzione al problema dei processi troppo lunghi dovrebbe essere quella di rendere più efficiente la macchina giudiziaria attraverso la dotazione di adeguate risorse finanziarie, reclutamento di nuovo personale a tutti i livelli e adeguamento dei supporti tecnologici. Al posto di tutto ciò, è stata cinicamente proposta la prescrizione dopo un numero di anni inferiore alla durata media dei processi, interrompendoli quindi prima della formazione delle sentenze. Così, verranno eliminati gli effetti senza rimuovere le cause per la felicità di molti criminali e la disperazione di tutti quelli che non potranno più avere giustizia.
In maniera analoga, invece di eliminare le cause della disastrosa situazione della ricerca pubblica, l’inadeguatezza delle risorse rischia di eliminare gli effetti, nel senso dei risultati scientifici, attuando così di fatto un’innovativa “ricerca breve o nulla”.
Comunque, niente paura e animi giulivi.
Ci possiamo infatti consolare pensando che, mentre la ricerca e l’università versano in condizioni drammatiche, c’è chi propone con enfasi l’istituzione di un ateneo del gusto presso l’Università La Sapienza in accordo con il Comune di Roma. Come sempre, da noi finisce tutto a “tarallucci e vino”.

Alla ricerca della ricerca perduta. Un libro e un blog di Roberta Carlini

24/01/2010 (poi pubblica sul manifesto il 31/01/2010)
“I ricercatori non crescono sugli alberi”: un saggio di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sui mali dell’università. E sulle ricette per venirne fuori, collettivamente
Nel palazzone del Cnr, in piazzale Aldo Moro a Roma, c’è una grande biblioteca nella quale sono consultabili le riviste scientifiche di tutto il mondo. Peccato che non ci siano i ricercatori, gradualmente decentrati per far posto al corpaccione amministrativo (oltre 2mila persone, due amministrativi o tecnici ogni 3 ricercatori). Poco male, si dirà, tanto c’è l’abbonamento internet. Peccato però che anche in rete le riviste siano accessibili solo dalla sede centrale, salvo pagarsele.
Il caso della biblioteca del Cnr è solo un piccolo esempio di vita vissuta all’interno di un quadro generale dei mali (e del bene) della ricerca e dell’università in Italia, fatto da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi in un libro appena uscito, “I ricercatori non crescono sugli alberi” (Laterza, 2009, 12 euro). Libro scritto dai due autori “per fatto personale”: sono entrambi ricercatori di fisica, entrambi rientrati in Italia dopo un periodo all’estero, scontenti, anzi indignati, del sistema italiano, ma determinati a scongiurare un rischio: diventare degli ex-giovani brontoloni, “continuare a lamentarci del sistema diventandone piano piano parte integrante, adeguandoci infine ai suoi meccanismi”. Qualche tempo fa hanno pubblicato un articolo sull’invecchiamento del corpo docente (“lo tsunami dell’università italiana”) che ha avuto molta risonanza e anche qualche effetto politico, adesso pubblicano questo libro e lo mettono in discussione aperta in un blog:
http://ricercatorialberi.blogspot.com/.
Punto di partenza – e di arrivo – del saggio è il sistema pubblico dell’università e della ricerca. Il sistema dei baroni che si tengono stretti gli allievi, degli allievi che non devono superare il maestro, dei ricercatori che quando entrano in ruolo hanno già i capelli bianchi, degli ultrasettantenni che non vogliono lasciare la cattedra (il che sarebbe anche bello) e soprattutto non mollano il potere (il che è meno bello), dei tagli del governo che stanno portando gran parte degli atenei sull’orlo del fallimento. Al contrario di quanto succede nella gran parte della pamplhettistica sull’università italiana, qui l’elenco delle malefatte non è connesso a una ricetta privatizzatrice. Si contestano dunque alcuni luoghi comuni, con dati e analisi – spesso assai tecniche, ma il cui esito è comprensibile ai non addetti ai lavori. E si evita di alimentare ancora l’aneddotica sul malcostume accademico, concentrandosi su alcuni nodi che possono spiegare come un sistema così si sia potuto formare e abbia potuto crescere. E tra i tanti punti analizzati, quello cruciale, che a catena produce altri problemi, è l’assenza della valutazione indipendente, dei ricercatori e dei loro risultati.
Gli autori non si nascondono e non ci nascondono i problemi che ci sono nei meccanismi della valutazione “tra pari” (peer review), il gran dibattito che c’è sugli indici legati alle pubblicazioni e alle citazioni, la necessità di essere sempre vigili contro qualsiasi illusione di una valutazione “automatica”: pure, dicono, c’è la possibilità di valutare la qualità della ricerca che si fa, e distribuire poi i soldi in base a questa valutazione; e sarebbe bene stare ai fatti, a quel che esce dalle nostre università e dai nostri enti di ricerca, invece di impastoiarsi nelle regole sulla selezione all’ingresso, inventarsi improbabili sorteggi o affidarsi alle virtù salvifiche di un sistema privato che, in crisi adesso anche negli Usa, in Italia non ha mai scucito un euro per la ricerca.
La scelta di fare delle proposte, e dunque esporsi anche a un dibattito su queste, fa uscire il lavoro di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi dall’elenco dei libri-lamentela. Ciò non vuol dire che non ci sia da fare denunce, e tante. In particolare, l’analisi del ciclone Tremonti-Gelmini che con i tagli decisi nel decreto d’esordio del governo nel 2008 ha condannato a morte sicura parecchie università; e tale destino, nonostante tutto il gran parlare di merito e valutazione, è legato a dinamiche di spesa, come quella per le retribuzioni, su cui poco possono incidere. Il tutto in un contesto nel quale la spesa pubblica per l’istruzione terziaria è già a livelli minimi nei confronti internazionali – ove questi siano fatti con criteri omogenei (qui gli autori contestano l’operazione compiuta dall’economista Roberto Perotti che, volendo svelare i conti dell“università truccata”, ha corretto la spesa pubblica per studente escludendo dal computo i fuori-corso).
Ma non è solo questione di soldi, ripetono gli autori del libro. Un esempio: ci sono stati pochi soldi per assumere i nuovi ricercatori, è vero. Però è anche vero che i pochi soldi che c’erano sono stati in gran parte spesi per promuovere gli associati a ordinari e (di meno) i ricercatori ad associati. Scelte legittime, nell’autonomia delle singole università: ma anche sospette, dato che è evidente che i futuri ricercatori non votano per gli organi accademici, chi è dentro sì. E nell’insieme la scelta di promuovere gli interni invece di assumere gli esterni ha fatto diventare molto piccola la base dell’università (i ricercatori), più pesante il vertice (gli ordinari), e allargato moltissimo l’esercito degli esterni, i precari, che secondo il governo non sono più del 5% e che invece tutte le indagini qua e là fatte stimano tra il 30 e il 40% del corpo docente. Adesso gran parte del lavoro nelle università si basa su questa enorme massa che formalmente è ancora fuori dalle porte degli atenei, e che entra con il contagocce ove pensionamenti, alchimie concorsuali e tetti lo consentono. O va a cercare alberi stranieri a cui appendere il suo futuro – sperando magari di rientrare in quota “cervelli”, per i quali è stato approntato dal sistema pubblico dell’università un apposito sito, detto
http://cervelli.cineca.it.
Tra la corrente di pensiero dominante e governante, che considera il sistema pubblico dell’università e della ricerca più o meno come i reaganiani consideravano lo Stato (una brutta bestia da affamare, per lasciare campo libero a meravigliose sorti mercantili), e una linea di difesa prevalente che si arrocca nella difesa dell’esistente, il libro di Sylos Labini e Zapperi fornisce una terza via realistica e radicale: la bestiaccia universitaria si può guarire senza ammazzarla. Troppo ottimisti? Il dibattito prosegue sul blog

Congresso del Circolo

In data 22 settembre 2009 si è tenuto il congresso del Circolo PD Istituto Superiore di Sanità.
Ecco i risultati:
Iscritti 34 Votanti 25 (3 iscritti con doppia tessera hanno deciso di votare nel circolo territoriale di appartenenza)

Per l’elezione del Segretario e dell’assemblea nazionale
Mozione 3 – Marino 10 voti
Mozione 1 – Bersani 8 voti
Mozione 2 – Franceschini 7 voti

Per l’elezione del Segretario regionale
Mozione 3 – Argentin 11
Mozione 2 – Morassut 7 voti
Mozione 1 – Mazzoli 5 voti
bianche 1, nulle 1

Presentazione delle tre mozioni

sesto

Chi minaccia la democrazia?

Chi minaccia la democrazia?

Il capogruppo dell’Asde Schulz: “Si vergogni!”

La libertà di stampa è una delle garanzie che un governo democratico, assieme agli organi di informazione (giornali, radio, televisioni, provider internet) dovrebbe garantire ai cittadini ed alle loro associazioni, per assicurare l’esistenza di una stampa libera, con una serie di diritti estesi principalmente ai membri delle agenzie di giornalismo, ed alle loro pubblicazioni.
Si estende anche al diritto all’accesso ed alla raccolta d’informazioni, ed ai processi che servono per ottenere informazioni da distribuire al pubblico.

Voce di Wikipedia

“Il presidente del Consiglio Berlusconi dovrebbe vergognarsi!”. Cos’altro aggiungere? Martin Schulz, capogruppo dei Socialisti e Democratici europei, di cui fa parte anche il Partito Democratico, lo dice con sdegno e con forza. Dopo l‘offensiva contro la stampa e l’affondo sui commissari dell’Unione Europea non ci sono più dubbi, “il premier è un pericolo per la democrazia perché sa quello che vuole e usa mezzi solo a suo vantaggio”. Parole, quelle del politico tedesco, che non lasciano spazio a fraintendimenti,ma lui stesso si sente in dovere di aggiungere: “Dicono che non dovrei intromettermi nella politica italiana,ma io credo che Berlusconi sia un pericolo che influenza l’Europa negativamente”.

Intanto, a Roma il premier dimostra quanto fondamento abbiano le analisi dell’eurodeputato e durante un’uscita pubblica ribadisce: “Povera Italia con questa stampa che racconta il contrario della realtà!”. E per assicurarsi che i giornalisti abbiano capito sfida i suoi acerrimi nemici: “Abbeveratevi della disinformazione di cui siete protagonisti”. Un commento sulle dimissioni del direttore dell’Avvenire Dino Boffo? “Credo che possiate leggere sui giornali di oggi tutto il contrario della realtà”.

In serata, poi, Berlusconi va al Quirinale e, stando a quello che si apprende, riceve l’invito ad abbassare i toni e pensare ai problemi del Paese. Il colloquio tra il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio è stato incentrato sulle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, ma non è mancata la discussione sui temi di attualità.

Affermazioni che costringono il presidente della Repubblica all’ennesimo richiamo alla “responsabilità” e che danno a Schulz l’occasione per un’altra riflessione: “La cosa peggiore è che non lo si prende sul serio e non si capisce quanto sia pericoloso. Chi mette a repentaglio la libertà di informazione non è un comico. Trovo incredibile il fatto che a molte persone stia simpatico. Certo, è un signore di una certa età che si circonda di belle donne, anche Totò lo era, ma non è diventato primo ministro…”.

Inoltre il capogruppo dell’Asde racconta un episodio noto a pochi: “Alla fine degli anni novanta Berlusconi cercò di acquistare le due principali emittenti tedesche. Fortunatamente non ci riuscì altrimenti oggi controllerebbe anche gli eurodeputati tedeschi”. E a proposito di aneddoti vale la pena ricordare le origini della simpatia fra il leader dell’Spd e il presidente del Consiglio. Nel 2003, Schulz chiese all’allora presidente dell’Ue Berlusconi di chiarire le posizioni xenofobe della Lega. la risposta, neanche a dirlo, fu una battuta: “Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti: la suggerirò per il ruolo di kapò”. Le scuse per quel palese scivolone internazionale non arrivarono mai.

Al fianco di Schulz, sul palco di Genova, due eurodeputati democratici: Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento Europeo e Francesca Balzani. “L’Italia doveva avere la presidenza del Parlamento, andava bene anche Mauro. Non l’ha avuta per colpa di Silvio Berlusconi. Lui era convinto che bastasse ordinare l’elezione di questo o quello, ma l’Ue non è Fininvest. Bisogna dialogare, lui non l’ha fatto e hanno scelto un’altra persona”. E mentre Berlusconi pensa ad attirare l’attenzione su tutto ciò che non sono i veri problemi dell’Italia “la gente muore di fame, la scuola è in ginocchio, la crisi riduce i posti di lavoro”. Quello di cui c’è bisogno è una “riscoperta della dimensione europea, l’unica in grado di dare risposte a problemi che riguardano tutti, come la crisi economica, ma anche il conflitto d’interessi”

E sulla politica del governo si esprime anche la giovane Francesca Balzani che invita a “ribellarsi ai tagli alla scuola e al mondo del lavoro. Rimanere inerti di fronte ad un tale abuso è addirittura peggiore dell’ondata di astensionismo che ha colpito l’Italia e l’Europa”.

In serata alla festa anche Oscar Luigi Scalfaro torna sugli attacchi ai media: “Sbaglia chi pensa che sia meglio cedere di fronte ad un prepotente, in qualsiasi settore voglia dominare abusando del potere. C’e’ bisogno che abbia un limite, che abbia una virgola di senso morale. Bisogna fermarlo in tempo”.
Il Presidente emerito dalla Repubblica ammonisce: “Essere investiti del potere non e’ facile. Si insinua facilmente il serpente dell’interrogativo: io sto sudando tutto il giorno, e’ mai possibile che un giornale mi attacchi?. Capisco che possa dare fastidio ma e’ da ubriachi pensare che i primi elogi siano sinceri, disinteressati. C’e’ un male – ha concluso Scalfaro -, che non e’ solo italiano, contro il quale e’ quasi impossibile salvarsi: e’ il servilismo’.

Il presidente del Consiglio concepisce solo un tipo di stampa: quella che “lo adula”. Il segretario del Pd Dario Franceschini, a margine del convegno delle Acli sul diritto di cittadinanza, risponde così quando gli viene chiesto di commentare le critiche alla stampa avanzate oggi da Silvio Berlusconi: “Non mi pare che ci sia nulla di nuovo. Lui ha in mente un modello di stampa libera in cui il massimo che si può fare è passare dall’adorazione all’adulazione. Continuerà ad avere delle sorprese perché la democrazia italiana ha degli anticorpi robusti e profondi e quando qualcuno tenta di sottrarre spazi di libertà, gli italiani reagiscono, al di là del colore politico di appartenenza”.

Anche Ignazio Marino, candidato alla segreteria dichiara: “Siamo drammaticamente scesi al 73esimo posto fra i 195 paesi del mondo siamo entrati nella cosiddetta area dei paesi a stampa “parzialmente libera”, non siamo più nei paesi a stampa libera. In altre parole, se dovessimo oggi chiedere l’accesso all’Unione Europea, siccome per accedere è necessario come requisito quello di una stampa libera, noi non avremmo quel requisito. Mi sembra che la situazione sia molto grave”. Marino oggi porta al braccio una fascia rossa “proprio per lanciare un allarme rosso, che spero sia raccolto da tanti nel nostro Paese, sulla libertà di informazione”.

Ivana Giannone Dal sito Nazionale del Partito Democratico

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Le quattro mozioni (http://www.partitodemocratico.it/dettaglio/84175/idee_a_confronto)

Sono state presentate quattro mozioni congressuali congiuntamente alle candidature alla segreteria nazionale. Vi invitiamo a leggerle e a discuterle su Pdnetwork

Questo elenco deve essere ancora ufficializzato dal Comitato per il congresso.

Nell’ordine sono state presentate le seguenti candidature: Pier Luigi Bersani con duemila firme, Dario Franceschini con duemila firme, Ignazio Marino con duemila firme e
Amerigo Rutigliano con 1.542 firme.

Come prevede il regolamento, la Commissione nazionale per il congresso procederà alla verifica delle firme richieste, tra 1.500 e duemila iscritti, e di tutti i requisiti previsti. A conclusione di questa verifica, la
Commissione procederà all’ammissione dei candidati all’elezione del 25 ottobre.

La segreteria della Commissione non ha potuto accogliere la domanda di Raffaele Calabretta in quanto sprovvisto delle firme e dei requisiti richiesti

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La città si-cura: 3 luglio a Roma

Qual è la ricetta per una città sicura? Come si-cura, cioè, una metropoli come Roma? Iniziamo da due elementi imprenscindibili per ogni amministrazione: il rafforzamento –da un lato- degli strumenti di presidio del territorio da parte delle forze dell’ordine, con particolare attenzione alle operazioni di prevenzione del crimine e di dialogo con i cittadini; il governo razionale –dall’altro- del territorio da parte del Comune in tutte le sue articolazioni: la cosiddetta sicurezza urbana partecipata.

Sul fronte delle forze dell’ordine, la città si-cura con un ripristino della capacità operativa attraverso un aumento di uomini, mezzi mobili e strutture nonché la ridislocazione dei commissariati e delle caserme per adeguarli alla struttura della città – notevolmente cambiata negli ultimi decenni – e alla sua vocazione multifunzionale di Capitale del Paese.

Sul fronte della sicurezza urbana partecipata, la città si-cura prima di tutto con il rafforzamento delle politiche locali d’inclusione sociale perchè una Roma sicura è una Roma giusta e solidale che non lascia nessuno solo. Fasce sociali deboli e rese ancora più fragili dalla crisi, cittadini immigrati, persone diversamente abili, ròm e sinti, devono sentirsi parte di una comunità con piena dignità e parità di diritti e doveri. Per questo chiediamo al Comune l’aumento delle risorse allocate ai servizi sociali e ai programmi di prossimità.roma-sicura

Infine, la città si-cura con un governo dei territori e delle comunità attuato sulla base di un triplice intervento: micro-riqualificazione urbana in chiave di sicurezza, con particolare attenzione alle stazioni metro, ferroviare e degli autobus (decoro urbano, potenziamento dell’illuminazione, stazioni Sos e videosorveglianza all’occorenza); mediazione sociale in territori complessi con progetti-pilota di partecipazione di residenti, commercianti, associazioni di cittadini stranieri; educazione alla legalità.

Vogliamo una sicurezza che miri a trasformare la città in una comunità inclusiva e solidale; che non si accontenti di esibire i muscoli dello stato ma che lavori ad allargare gli spazi dei diritti e della cittadinanza attiva; che non guardi indietro paralizzata dalla paura ma che rivolga il suo sguardo con fiducia ad un futuro di convivenza e di arricchimento reciproco; che non consideri la cultura come un mero costo ma come un concreto investimento di formazione e di relazioni consapevoli soprattutto per le giovani generazioni.

“Il Pd non vince con il modello Penati” 24/06/2009 pubblicato su ” Europa “.

E’ nel “modello Penati” – tallonare la destra e la Lega sul loro stesso terreno culturale e programmatico, che si parli di federalismo o d’immigrazione – il possibile futuro vincente del Pd e in generale dei riformisti italiani? In molti nel centrosinistra la pensano così (anche il direttore di “Europa”, ci pare), e questa interpretazione sembra avvalorata dall’ottima, sebbene alla fine sfortunata, performance elettorale dell’ex-presidente della Provincia di Milano, che nel ballottaggio ha mancato di un soffio la riconferma nel territorio simbolo dell’egemonia berlusconian-bossiana.

La tesi non ci convince, intanto per una ragione squisitamente di mercato elettorale. E’ vero infatti che per sperare di vincere il Pd deve conquistare un po’ del voto cosiddetto “moderato”, strappare consensi al centrodestra: ma facendo grande attenzione a non sguarnire le retrovie, a non deludere quella parte non irrilevante del proprio elettorato tradizionale che avverte come un valore irrinunciabile l’opposizione alle parole d’ordine più populiste, razziste e demagogiche di Pdl e Lega.

La seconda obiezione è di ancora maggiore sostanza e di più lunga prospettiva, e rimanda a un paradosso che segna il cammino del centrosinistra italiano da quindici anni, dall’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi. Da allora, non c’è dubbio, noi siamo ossessionati da Berlusconi, dalla sua straordinaria capacità d’imporre se stesso e la sua “agenda” come i terreni pressoché esclusivi del dibattito e dello scontro tra destra e sinistra. Questa ossessione ha due facce, apparentemente contraddittorie ma in realtà figlie della stessa insicurezza di sé, della medesima incertezza identitaria che assillano in Italia il campo riformista. Una è nel cosiddetto anti-berlusconismo, nella tentazione di definirsi per differenza, per contrapposizione rispetto al leader avversario. L’altra faccia è nella tentazione di rincorrere le posizioni e le proposte di questo stesso avversario e dei suoi alleati, con l’obiettivo più o meno consapevole di offrire di sé al Paese un’immagine altrettanto accattivante. Come dire: visto che il centrodestra vince perché fà la faccia feroce sull’immigrazione, perché accelera sul federalismo, a noi non resta che rincorrerlo su questi suoi terreni. Un piccolo ma illuminante esempio di questo modo di procedere viene proprio dalla campagna elettorale per le provinciali di Milano. Berlusconi afferma che a Milano ci sono troppi neri, che sembra una città africana; Penati replica duramente, ma anziché dargli del razzista dice che “sì, è vero, a Milano ci sono troppi immigrati, ma la colpa è dei sindaci di centrodestra che governano da quasi vent’anni”.

Questa ambivalenza – anti-berlusconismo da una parte, subalternità culturale al berlusconismo dall’altra – è del resto spiegabile. Poiché sul piano dell’identità culturale, programmatica, valoriale, il centrosinistra fatica a darsi un profilo chiaramente alternativo a quello della destra, tant’è che ripetutamente si ritrova a inseguirne proposte e sensibilità, allora personalizzare la differenza, l’alterità nell’anti-berlusconismo è una via surrogata che risponde all’esigenza di mostrarsi diverso e alternativo. Se non si riesce a essere alternativi nei contenuti, non resta che apparirlo contrapponendosi all’uomo che da 15 anni incarna il centrodestra italiano.

Come si esce da questo “cul de sac”? Non c’è che un modo: togliersi dalla testa che per vincere, il riformismo debba assomigliare alla destra. Dal centrodestra italiano, certo, abbiamo moltissimo da imparare: sono più bravi a capire cosa vogliono gli italiani e cosa li preoccupa, dalle tasse alla sicurezza; non si sentono migliori degli elettori cui chiedono il voto; sono molto più agili e veloci nell’adattarsi ai cambiamenti sociali. Insomma sono più “popolari”, perché per esempio (soprattutto con la Lega, ma non solo) hanno capito meglio e prima che in questo tempo di frammentazione sociale, di globalizzazione anonimizzante, l’identità territoriale è un elemento centrale, decisivo su cui fondare il discorso pubblico. Dobbiamo usare gli stessi attrezzi  affinati dalla destra, dobbiamo guardare in faccia senza sufficienza le paure e le inquietudini dei cittadini e ad esse saper rispondere: ma questo dobbiamo fare offrendo  visioni e proposte che siano chiaramente nostre e che siano, per così dire, inequivocabilmente progressiste.  Anche su quel terreno delicatissimo e decisivo sul piano del consenso che è la “sicurezza”: tema che troppo a lungo abbiamo trascurato o per il quale ci siamo accontentati di richiami un po’ stanchi ai nostri valori tradizionali – solidarietà ed accoglienza – per poi, al contrario, scivolare in una rincorsa inutile e incomprensibile della destra. Le “ronde” sono un vulnus per la democrazia: punto e basta, non ci sono mediazioni possibili con chi le vuole introdurre, ma una risposta a quelle paure va data con serietà e severità.

In generale, un riformismo popolare deve innalzare oggi due grandi bandiere, quella dei diritti, dei nuovi diritti personali e dei diritti di cittadinanza, e ancora più irrinunciabile quella dell’ambiente, questione sempre più popolare come testimoniano anche i risultati delle recenti elezioni europee. L’ambiente come benessere, l’ambiente come risorsa per il lavoro e lo sviluppo, l’ambiente come interesse locale. La destra italiana è la più anti-ambientale d’occidente, considera la lotta ai mutamenti climatici e la green economy poco più che stranezze mentre tutti nel mondo ci vedono un efficace antidoto alla crisi e la base principale dell’economia del futuro. Ma il Pd fino ad oggi ha esitato a brandire questa evidente arretratezza del nostro centrodestra come un’arma politica e polemica. Noi siamo timidi sull’ambiente, davvero troppo timidi, e rischiamo – per ulteriore paradosso – di dare il tempo ai nostri competitori di appropriarsi anche di questo tema come già stanno facendo le destre in Europa da Merkel, a Sarkozy, a Cameron.

Sarà bene che anziché parlarci addosso, anziché dividerci in vista del congresso tra alleanze e tra  candidature che si basano prevalentemente su logiche e dinamiche antiche e  autoreferenziali, c’impegniamo d’ora in avanti per definirla una buona volta, questa nostra identità positiva. Così magari potremo contendere il consenso alla destra senza dover contare soltanto sulle miserie morali del nostro premier.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante