Archivi del mese: luglio 2009

Le quattro mozioni (http://www.partitodemocratico.it/dettaglio/84175/idee_a_confronto)

Sono state presentate quattro mozioni congressuali congiuntamente alle candidature alla segreteria nazionale. Vi invitiamo a leggerle e a discuterle su Pdnetwork

Questo elenco deve essere ancora ufficializzato dal Comitato per il congresso.

Nell’ordine sono state presentate le seguenti candidature: Pier Luigi Bersani con duemila firme, Dario Franceschini con duemila firme, Ignazio Marino con duemila firme e
Amerigo Rutigliano con 1.542 firme.

Come prevede il regolamento, la Commissione nazionale per il congresso procederà alla verifica delle firme richieste, tra 1.500 e duemila iscritti, e di tutti i requisiti previsti. A conclusione di questa verifica, la
Commissione procederà all’ammissione dei candidati all’elezione del 25 ottobre.

La segreteria della Commissione non ha potuto accogliere la domanda di Raffaele Calabretta in quanto sprovvisto delle firme e dei requisiti richiesti

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La città si-cura: 3 luglio a Roma

Qual è la ricetta per una città sicura? Come si-cura, cioè, una metropoli come Roma? Iniziamo da due elementi imprenscindibili per ogni amministrazione: il rafforzamento –da un lato- degli strumenti di presidio del territorio da parte delle forze dell’ordine, con particolare attenzione alle operazioni di prevenzione del crimine e di dialogo con i cittadini; il governo razionale –dall’altro- del territorio da parte del Comune in tutte le sue articolazioni: la cosiddetta sicurezza urbana partecipata.

Sul fronte delle forze dell’ordine, la città si-cura con un ripristino della capacità operativa attraverso un aumento di uomini, mezzi mobili e strutture nonché la ridislocazione dei commissariati e delle caserme per adeguarli alla struttura della città – notevolmente cambiata negli ultimi decenni – e alla sua vocazione multifunzionale di Capitale del Paese.

Sul fronte della sicurezza urbana partecipata, la città si-cura prima di tutto con il rafforzamento delle politiche locali d’inclusione sociale perchè una Roma sicura è una Roma giusta e solidale che non lascia nessuno solo. Fasce sociali deboli e rese ancora più fragili dalla crisi, cittadini immigrati, persone diversamente abili, ròm e sinti, devono sentirsi parte di una comunità con piena dignità e parità di diritti e doveri. Per questo chiediamo al Comune l’aumento delle risorse allocate ai servizi sociali e ai programmi di prossimità.roma-sicura

Infine, la città si-cura con un governo dei territori e delle comunità attuato sulla base di un triplice intervento: micro-riqualificazione urbana in chiave di sicurezza, con particolare attenzione alle stazioni metro, ferroviare e degli autobus (decoro urbano, potenziamento dell’illuminazione, stazioni Sos e videosorveglianza all’occorenza); mediazione sociale in territori complessi con progetti-pilota di partecipazione di residenti, commercianti, associazioni di cittadini stranieri; educazione alla legalità.

Vogliamo una sicurezza che miri a trasformare la città in una comunità inclusiva e solidale; che non si accontenti di esibire i muscoli dello stato ma che lavori ad allargare gli spazi dei diritti e della cittadinanza attiva; che non guardi indietro paralizzata dalla paura ma che rivolga il suo sguardo con fiducia ad un futuro di convivenza e di arricchimento reciproco; che non consideri la cultura come un mero costo ma come un concreto investimento di formazione e di relazioni consapevoli soprattutto per le giovani generazioni.

“Il Pd non vince con il modello Penati” 24/06/2009 pubblicato su ” Europa “.

E’ nel “modello Penati” – tallonare la destra e la Lega sul loro stesso terreno culturale e programmatico, che si parli di federalismo o d’immigrazione – il possibile futuro vincente del Pd e in generale dei riformisti italiani? In molti nel centrosinistra la pensano così (anche il direttore di “Europa”, ci pare), e questa interpretazione sembra avvalorata dall’ottima, sebbene alla fine sfortunata, performance elettorale dell’ex-presidente della Provincia di Milano, che nel ballottaggio ha mancato di un soffio la riconferma nel territorio simbolo dell’egemonia berlusconian-bossiana.

La tesi non ci convince, intanto per una ragione squisitamente di mercato elettorale. E’ vero infatti che per sperare di vincere il Pd deve conquistare un po’ del voto cosiddetto “moderato”, strappare consensi al centrodestra: ma facendo grande attenzione a non sguarnire le retrovie, a non deludere quella parte non irrilevante del proprio elettorato tradizionale che avverte come un valore irrinunciabile l’opposizione alle parole d’ordine più populiste, razziste e demagogiche di Pdl e Lega.

La seconda obiezione è di ancora maggiore sostanza e di più lunga prospettiva, e rimanda a un paradosso che segna il cammino del centrosinistra italiano da quindici anni, dall’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi. Da allora, non c’è dubbio, noi siamo ossessionati da Berlusconi, dalla sua straordinaria capacità d’imporre se stesso e la sua “agenda” come i terreni pressoché esclusivi del dibattito e dello scontro tra destra e sinistra. Questa ossessione ha due facce, apparentemente contraddittorie ma in realtà figlie della stessa insicurezza di sé, della medesima incertezza identitaria che assillano in Italia il campo riformista. Una è nel cosiddetto anti-berlusconismo, nella tentazione di definirsi per differenza, per contrapposizione rispetto al leader avversario. L’altra faccia è nella tentazione di rincorrere le posizioni e le proposte di questo stesso avversario e dei suoi alleati, con l’obiettivo più o meno consapevole di offrire di sé al Paese un’immagine altrettanto accattivante. Come dire: visto che il centrodestra vince perché fà la faccia feroce sull’immigrazione, perché accelera sul federalismo, a noi non resta che rincorrerlo su questi suoi terreni. Un piccolo ma illuminante esempio di questo modo di procedere viene proprio dalla campagna elettorale per le provinciali di Milano. Berlusconi afferma che a Milano ci sono troppi neri, che sembra una città africana; Penati replica duramente, ma anziché dargli del razzista dice che “sì, è vero, a Milano ci sono troppi immigrati, ma la colpa è dei sindaci di centrodestra che governano da quasi vent’anni”.

Questa ambivalenza – anti-berlusconismo da una parte, subalternità culturale al berlusconismo dall’altra – è del resto spiegabile. Poiché sul piano dell’identità culturale, programmatica, valoriale, il centrosinistra fatica a darsi un profilo chiaramente alternativo a quello della destra, tant’è che ripetutamente si ritrova a inseguirne proposte e sensibilità, allora personalizzare la differenza, l’alterità nell’anti-berlusconismo è una via surrogata che risponde all’esigenza di mostrarsi diverso e alternativo. Se non si riesce a essere alternativi nei contenuti, non resta che apparirlo contrapponendosi all’uomo che da 15 anni incarna il centrodestra italiano.

Come si esce da questo “cul de sac”? Non c’è che un modo: togliersi dalla testa che per vincere, il riformismo debba assomigliare alla destra. Dal centrodestra italiano, certo, abbiamo moltissimo da imparare: sono più bravi a capire cosa vogliono gli italiani e cosa li preoccupa, dalle tasse alla sicurezza; non si sentono migliori degli elettori cui chiedono il voto; sono molto più agili e veloci nell’adattarsi ai cambiamenti sociali. Insomma sono più “popolari”, perché per esempio (soprattutto con la Lega, ma non solo) hanno capito meglio e prima che in questo tempo di frammentazione sociale, di globalizzazione anonimizzante, l’identità territoriale è un elemento centrale, decisivo su cui fondare il discorso pubblico. Dobbiamo usare gli stessi attrezzi  affinati dalla destra, dobbiamo guardare in faccia senza sufficienza le paure e le inquietudini dei cittadini e ad esse saper rispondere: ma questo dobbiamo fare offrendo  visioni e proposte che siano chiaramente nostre e che siano, per così dire, inequivocabilmente progressiste.  Anche su quel terreno delicatissimo e decisivo sul piano del consenso che è la “sicurezza”: tema che troppo a lungo abbiamo trascurato o per il quale ci siamo accontentati di richiami un po’ stanchi ai nostri valori tradizionali – solidarietà ed accoglienza – per poi, al contrario, scivolare in una rincorsa inutile e incomprensibile della destra. Le “ronde” sono un vulnus per la democrazia: punto e basta, non ci sono mediazioni possibili con chi le vuole introdurre, ma una risposta a quelle paure va data con serietà e severità.

In generale, un riformismo popolare deve innalzare oggi due grandi bandiere, quella dei diritti, dei nuovi diritti personali e dei diritti di cittadinanza, e ancora più irrinunciabile quella dell’ambiente, questione sempre più popolare come testimoniano anche i risultati delle recenti elezioni europee. L’ambiente come benessere, l’ambiente come risorsa per il lavoro e lo sviluppo, l’ambiente come interesse locale. La destra italiana è la più anti-ambientale d’occidente, considera la lotta ai mutamenti climatici e la green economy poco più che stranezze mentre tutti nel mondo ci vedono un efficace antidoto alla crisi e la base principale dell’economia del futuro. Ma il Pd fino ad oggi ha esitato a brandire questa evidente arretratezza del nostro centrodestra come un’arma politica e polemica. Noi siamo timidi sull’ambiente, davvero troppo timidi, e rischiamo – per ulteriore paradosso – di dare il tempo ai nostri competitori di appropriarsi anche di questo tema come già stanno facendo le destre in Europa da Merkel, a Sarkozy, a Cameron.

Sarà bene che anziché parlarci addosso, anziché dividerci in vista del congresso tra alleanze e tra  candidature che si basano prevalentemente su logiche e dinamiche antiche e  autoreferenziali, c’impegniamo d’ora in avanti per definirla una buona volta, questa nostra identità positiva. Così magari potremo contendere il consenso alla destra senza dover contare soltanto sulle miserie morali del nostro premier.

Roberto Della Seta

Francesco Ferrante